María Zambrano, "Chiari del bosco"

Questo scritto è apparso su Librobreve nel febbraio 2017.


María Zambrano (Vélez-Málaga, 22 aprile 1904 – Madrid, 6 febbraio 1991) 


Da qualche anno non era più agevole per il lettore italiano procurarsi Chiari del bosco di María Zambrano. A rimettere in circolo quello che è un libro assai noto della filosofa spagnola allieva di José Ortega y Gasset è SE, che ripropone in un nuovo volume (pp. 155, euro 20) il testo curato a suo tempo da Carlo Ferrucci per un'edizione Bruno Mondadori. A ben vedere questo titolo, uno dei suoi più citati, ha una curiosa storia ondivaga tra case editrici italiane, se pensiamo che la stessa edizione di cui parliamo oggi aveva trovato posto inizialmente nel catalogo di Feltrinelli nel 1991. Siamo quindi già a quota tre editori diversi che, nel giro di un quarto di secolo, hanno messo in circolazione la traduzione di un'opera di una scrittrice-filosofa che non smette di frequentare con una certa costanza gli scaffali delle librerie italiane (penso anche al recente L'esilio come patria pubblicato da Morcelliana). Si verificano proprio nella scrittura e nel "pensiero del pensiero" (così come nel suo controllo o abbandono) movimento e scotimento per chi legge. In questi paragrafi - cosa non frequentissima, almeno per quel che percepisco da fruitore di alcuni libri degli scaffali di filosofia - la pratica della filosofia coincide con una voce collocata in uno spazio di conversazione, accompagnamento e "guida", in un luogo della mente in cui il "rispetto" per il famigerato lettore è davvero massimo, quasi distillato a ogni passo. Si legge nello scritto di Carlo Ferrucci che le caratteristiche di Chiari del bosco
corrispondono a quelle della 'guida', un genere di testo passato in Spagna dall'Oriente, che è composto di figure alimentate dalla fantasia piuttosto che da argomentazioni, che è insieme comunicativo ed enigmatico, che suggerisce più di quanto non dica perché vuole che le sue verità rinascano e rivivano il più direttamente possibile nell'interiorità del lettore. Questi viene condotto, così, non tanto a condividere un sapere, quanto ad assimilare un'esperienza di tipo iniziatico, alimentata da una scrittura fortemente ellittica, lampeggiante, ora fin troppo coordinata ora bruscamente scoordinata, che lo obbliga a farsene coautore, a esporsi con tutto se stesso azzardando significati che il testo non garantisce. E che confluiscono in un 'logos sommerso' o 'logos del pathos', come la Zambrano ha chiamato in un'altra opera questa forma di comprensione inseparabile dalla situazione vitale di quanti si trovano a parteciparne.
Di qui il riecheggiare, in queste pagine, della visione sapienziale dei presocratici, delle religioni salvifiche greche e romane, della tradizione gnostica, dell'idea - mutuata tra l'altro da Nietzsche - della filosofia come 'trasformazione'.

Che cosa significa pensare? In quanti modi pensiamo? Cosa accade nel e per il pensiero? C'è un modo cartesiano di affrontare simili questioni. Poi c'è anche un versante che, provando a condurre alla cima di queste terribili e sublimi domande, riconduce alla mistica e alla poesia: è questa parte della montagna che percorriamo leggendo più opere di María Zambrano. Il lettore prenda a esempio paragrafi come "Solo la parola" o "Lo sguardo remoto". A me pare che buona parte dell'innovazione portata da María Zambrano avvenga dentro la scrittura e per questo, poco sopra, ho voluto usare l'espressione "scrittrice-filosofa". María Zambrano è anche una scrittrice di "ellissi" e usa la reticenza come una lama affilatissima.



Claros del bosque compie nel 2017 quarant'anni e continua a essere una lettura inevitabile tra quelle che ci propone il curpus dei testi mistici europei, lampeggia ancora come una radura avvicinabile, con pagine in cui filosofia razionalistica, mistica, mitologia e poesia si sono compenetrate, dove la scrittura è a uno stadio ninfale che precede una metamorfosi che potrà accadere solo tra le mani di un lettore. Il migliore invito alla lettura di un libro così è riportarne almeno l'incipit, poi, sul come leggere questo passo e queste pagine, verrà chiamata a raccolta l'intelligenza di ognuno, attraverso sentieri che non necessariamente si riveleranno interrotti.

Il chiaro del bosco è un centro nel quale non sempre è possibile entrare; lo si osserva dal limite e la comparsa di alcune impronte di animali non aiuta a compiere tale passo. È un altro regno che un’anima abita e custodisce. Qualche uccello richiama l’attenzione, invitando ad avanzare fin dove indica la sua voce. E le si dà ascolto. Poi non si incontra nulla, nulla che non sia un luogo intatto che sembra essersi aperto solo in quell’istante e che mai più si darà così. Non bisogna cercarlo. Non bisogna cercare. È la lezione immediata dei chiari del bosco: non bisogna andare a cercarli, e nemmeno a cercare nulla da loro. Nulla di determinato, di prefigurato, di risaputo. E l’analogia del chiaro con il tempio può sviare l’attenzione [...] E resta il nulla e il vuoto che il chiaro del bosco dà in risposta a quello che si cerca. Mentre se non si cerca nulla l’offerta sarà imprevedibile, illimitata. Giacché sembra che il nulla e il vuoto - o il nulla o il vuoto - debbano essere presenti o latenti di continuo nella vita umana. E che per non essere divorato dal nulla o dal vuoto uno debba farli in se stesso, debba almeno trattenersi, rimanere in sospeso, nel negativo dell’estasi. Sospendere la domanda che crediamo costitutiva dell’umano. La funesta domanda alla guida, alla presenza che si dilegua se la si incalza, alla propria anima asfissiata dal domandare della coscienza insorgente, alla propria mente cui non si lascia il tempo di concepire silenziosamente, oscuramente anche, senza che quella si interponga per domandare il rendiconto alla schiava ammutolita. E il timore dell’estasi che assale al cospetto della chiarezza vivente fa fuggire dal chiaro del bosco il suo visitatore, che diventa così un intruso.


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