Questo scritto è apparso su Librobreve nel settembre 2016.
Li Po (李白, Lǐ Bái; Suyab, 701 – Chang Jiang, 762) |
Rileggere dopo quasi vent’anni Liriche cinesi (1753 a.C. – 1278 d.C.) (a cura di Giorgia Valensin, prefazione di Eugenio Montale, Einaudi, pp. 256, libro fuori catalogo) ha sortito due binari di riflessioni e effetti. Da un lato ritrovare queste liriche, alcune davvero memorabili, a distanza di tempo, porta a interrogarsi sull’intervallo in cui non si legge ma si ricorda di aver letto qualcosa. Dall’altro lato, con questo oggetto in mano, è partita una serie di riflessioni sullo statuto dell’antologia poetica di cui proverò a dar conto nel prossimo paragrafo, con un lungo inciso che tuttavia dovrebbe servire a mostrare, in modo contrastivo, i presupposti attuali del "fare antologie" se paragonati a pubblicazioni come questa einaudiana, tra l'altro rivolta a un passato lontanissimo e sprofondato. Mi è chiaro che i tempi sono cambiati di brutto, ma questo non significa che non possiamo interrogarci, ora come allora, sul concetto di "antologia poetica" e fare dei raffronti. La prima ragione per cui ricordo questo volume è perché tuttora rappresenta un libro di base per chi voglia avvicinare, per scansioni dinastiche, l’antica poesia cinese, da Il libro delle Odi, a Chu Yuan, fino a uno sventolio di dinastie (Han, T’ang, Sung) e i nomi più noti di Li Po, Tu Fu, Lu Yu e il grande corpus poetico di Po Chu-i. Il volume ebbe un discreto successo, per cui si può ancora trovare nei circuiti dell'usato. Lo scritto introduttivo di Montale poi si può leggere in tutte le pubblicazioni che radunano i suoi contributi critici sulla poesia.
Con il libro in mano ho provato a immaginare l’operazione editoriale che fece all’epoca Einaudi. Mi è parso di leggere tra le righe un “Caro Lettore, affido a una sinologa di valore la cura di un'antologia e la traduzione di un importante numero di testi poetici cinesi e al nostro poeta di spicco la prefazione del volume; inserisco il risultato dell'operazione nella prestigiosa collana NUE, quella con le righette rosse disegnata dal "nostro" Bruno Munari, confidando nella tua benevolenza”. Ecco, il volume che ho acquistato l’altro giorno da una bancarella a 12 euro è del 1963 (ma la prima edizione risale al 1943, mentre l'apposizione della nota montaliana è del 1952) e riporta la dicitura "undicesima edizione". Anche non conoscendo le tirature dell’epoca, "undicesima edizione" mi sembra un dato notevole, perché si tratta pur sempre di un’antologia poetica. Oggi cosa resta di questo costrutto di antologia poetica? Sorvolando sui casi fortunati che hanno lasciato il segno, come l'antologia di Pier Vincenzo Mengaldo, e i casi meno fortunati ma pur sempre interessanti nell’impianto come quello di Dopo la lirica, antologia curata da Enrico Testa per Einaudi, le antologie collettive di poesia (contemporanea o antica) hanno via via perso importanza di pari passo con la marginalità della poesia e, al netto delle polemiche che ogni antologia solleva, si può dire che oggigiorno l’antologia collettiva di poesia rischia di diventare un libro che i) serve principalmente a rafforzare la posizione critica e curatoriale di chi la assembla; ii) cristallizza e fotografa un dato gruppo di lavoro e interessi e, nel migliore dei casi, iii) potrà interessare e solleticare il pensiero di qualche frequentatore di bancarella dei fuori catalogo di domani. Se le cose stanno circa così, qualsiasi discorso sulla militanza nell'atto di compilazione di una data antologia rimane per sempre nel retrobottega. Diverso è il caso di volumi antologici periodici come i Quaderni di poesia italiana di Marcos y Marcos, i quali, dopo un percorso pluridecennale meritorio, hanno mostrato una strana virata votata alla trasparenza, all’affissione di un tabellone dei playoff delle selezioni, all’insegna di un procedimento che si addice di più alla bacheca di un’amministrazione comunale chiamata alla trasparenza dai contribuenti e meno a un comitato editoriale chiamato a rispondere di un gesto critico e curatoriale coraggioso. Ne dobbiamo dedurre che la critica e la curatela sono diventate poco più che operazioni di normale amministrazione? Se così fosse, sarebbe inquietante, tanto più se le parole d’ordine che girano sono le perniciose “lealtà” e “onestà”. Preferisco di gran lunga chi dice di scommettere su un'opera o finanche su un autore, con tutto ciò che l'atto di scommessa comporta, perché l'editoria più vivace non mi sembra il terreno dove fare tanti calcoli o tatticismi buonisti (qui mi sono spostato a scrivere in generale). Quello che poi a me fa più impressione è l’autoantologismo. Mi spiego meglio: sempre più spesso, anche tra autori sotto i quarant’anni, troviamo libri che radunano testi già usciti in altri libri, con l’aggiunta di “qualche inedito”. Altre volte il sottotitolo recita un arco di tempo (solitamente un quindicennio). Si comprende bene che tale scelta può essere dettata da a) la necessità di mettere in circolazione dei testi divenuti irreperibili e b) la volontà di puntare il dito sulla parsimonia e la pazienza con cui si è gestito il proprio faldone nel cassetto. Io credo che se questa prassi aumenterà non farà altro che nuocere alla vita dei libri di poesia, proprio perché eroderà ulteriormente la possibilità del libro di poesia di essere libro e non raccolta, non autoantologia, non morettiano (Marino, non Nanni) diario in versi senza le date, insomma di essere un libro di cui si può parlare perché parla di qualcosa.
Con il libro in mano ho provato a immaginare l’operazione editoriale che fece all’epoca Einaudi. Mi è parso di leggere tra le righe un “Caro Lettore, affido a una sinologa di valore la cura di un'antologia e la traduzione di un importante numero di testi poetici cinesi e al nostro poeta di spicco la prefazione del volume; inserisco il risultato dell'operazione nella prestigiosa collana NUE, quella con le righette rosse disegnata dal "nostro" Bruno Munari, confidando nella tua benevolenza”. Ecco, il volume che ho acquistato l’altro giorno da una bancarella a 12 euro è del 1963 (ma la prima edizione risale al 1943, mentre l'apposizione della nota montaliana è del 1952) e riporta la dicitura "undicesima edizione". Anche non conoscendo le tirature dell’epoca, "undicesima edizione" mi sembra un dato notevole, perché si tratta pur sempre di un’antologia poetica. Oggi cosa resta di questo costrutto di antologia poetica? Sorvolando sui casi fortunati che hanno lasciato il segno, come l'antologia di Pier Vincenzo Mengaldo, e i casi meno fortunati ma pur sempre interessanti nell’impianto come quello di Dopo la lirica, antologia curata da Enrico Testa per Einaudi, le antologie collettive di poesia (contemporanea o antica) hanno via via perso importanza di pari passo con la marginalità della poesia e, al netto delle polemiche che ogni antologia solleva, si può dire che oggigiorno l’antologia collettiva di poesia rischia di diventare un libro che i) serve principalmente a rafforzare la posizione critica e curatoriale di chi la assembla; ii) cristallizza e fotografa un dato gruppo di lavoro e interessi e, nel migliore dei casi, iii) potrà interessare e solleticare il pensiero di qualche frequentatore di bancarella dei fuori catalogo di domani. Se le cose stanno circa così, qualsiasi discorso sulla militanza nell'atto di compilazione di una data antologia rimane per sempre nel retrobottega. Diverso è il caso di volumi antologici periodici come i Quaderni di poesia italiana di Marcos y Marcos, i quali, dopo un percorso pluridecennale meritorio, hanno mostrato una strana virata votata alla trasparenza, all’affissione di un tabellone dei playoff delle selezioni, all’insegna di un procedimento che si addice di più alla bacheca di un’amministrazione comunale chiamata alla trasparenza dai contribuenti e meno a un comitato editoriale chiamato a rispondere di un gesto critico e curatoriale coraggioso. Ne dobbiamo dedurre che la critica e la curatela sono diventate poco più che operazioni di normale amministrazione? Se così fosse, sarebbe inquietante, tanto più se le parole d’ordine che girano sono le perniciose “lealtà” e “onestà”. Preferisco di gran lunga chi dice di scommettere su un'opera o finanche su un autore, con tutto ciò che l'atto di scommessa comporta, perché l'editoria più vivace non mi sembra il terreno dove fare tanti calcoli o tatticismi buonisti (qui mi sono spostato a scrivere in generale). Quello che poi a me fa più impressione è l’autoantologismo. Mi spiego meglio: sempre più spesso, anche tra autori sotto i quarant’anni, troviamo libri che radunano testi già usciti in altri libri, con l’aggiunta di “qualche inedito”. Altre volte il sottotitolo recita un arco di tempo (solitamente un quindicennio). Si comprende bene che tale scelta può essere dettata da a) la necessità di mettere in circolazione dei testi divenuti irreperibili e b) la volontà di puntare il dito sulla parsimonia e la pazienza con cui si è gestito il proprio faldone nel cassetto. Io credo che se questa prassi aumenterà non farà altro che nuocere alla vita dei libri di poesia, proprio perché eroderà ulteriormente la possibilità del libro di poesia di essere libro e non raccolta, non autoantologia, non morettiano (Marino, non Nanni) diario in versi senza le date, insomma di essere un libro di cui si può parlare perché parla di qualcosa.
Tutta questa riflessione centrale sulle antologie a mio avviso ha a che fare anche con il libro einaudiano che ricordo oggi, perché nel suo essere antologia, Liriche cinesi è prima di tutto libro, con tutti i limiti linguistici che questo comporta sul versante della traduzione. Montale, nella sua nota introduttiva, sembra curiosamente lanciare un'anticipazione su un titolo futuro (“la lirica e la satira sembrano affiancarsi liberamente in questa vastissima satura”). Allo stesso tempo, il non-sinologo Montale inanella una serie di riflessioni davvero coraggiose su un corpo poetico lontanissimo. Difficilmente ritroveremmo in poeti-critici contemporanei una simile capacità di sintesi. Ad esempio quando sostiene questo:
Limpidissime come sono, esse sfuggono a quel metro nuovo che l’età cristiana ha regalato al mondo occidentale, e forse non solo a questo. Non è solo che manchi in esse quell’umanizzarsi del tempo e della natura e quella divinizzazione della donna che son proprie della lirica europea; è piuttosto che qui, come nel miracolo della scultura egiziana e, in minor grado, in quello dell’arte greca, l’uomo e l’arte tendevano alla natura, erano natura; mentre da noi, e da molti secoli, natura ed arte tendono all’uomo, si fanno uomo.
Chiudo con un breve testo dalle poesie di Po Chu-i (772-846 D.C.):
Paralisi
Cari amici, non c’è ragione
Perché abbiate tanta pietà.
Certo, di tanto in tanto ancora
Farò qualche passeggiatina.
Quel che occorre è una mente lucida.
A che cosa servono i piedi?
Per terra si può andar anche in lettiga –
Sull’acqua si può vogare.
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