"La bella vita", Antonio Turolo

 Questo scritto è apparso sul sito "Lankenauta" il 17 luglio 2021.


La quinta proposta della collana di poesia novecento/duemila di Le Lettere, curata da Diego Bertelli e Raoul Bruni, è La bella vita di Antonio Turolo. Questo nuovo titolo giunge dopo Corruptio optimi pessima del 2007 (uscito per Nuovadimensione) e A parte il lato umano del 2016 (pubblicato da Valigie Rosse e premio Ciampi di quell’anno). Tralasciando gli studi sul Magalotti e sul primo Gadda, rispettivamente del 1993 e del 1995, e volendo rimanere nell’ambito della vicenda editoriale poetica, per Turolo tutto ebbe inizio nell’epoca in cui le prassi antologizzanti mostravano ancora una valenza di profonda scoperta. Mi riferisco alla silloge Le parole contate che Antonio Turolo pubblicò in “Poesia contemporanea. Sesto quaderno italiano” nel 1998, serie allora come ora edita da Marcos y Marcos. Già in quella raccolta di testi, tra l’altro, si delineavano i tratti più marcati e durevoli della scrittura di Turolo: la provincia famosa per l’operosità eppure dannatamente neghittosa sullo sfondo (ma è davvero solo sfondo o, in una sorta di percezione della Gestalt, lo sfondo può essere primo piano?), la predilezione per ambientazioni claustrofobiche, una galleria di personaggi che parlano anche in dialetto e si rivolgono spesso a chi dice io nei testi. Porrei una domanda scrivendo qui della poesia di Antonio Turolo: è l’autore che è protagonista o è il protagonista che è l’autore?

Cercando altre permanenze di questa scrittura, e contrariamente all’eavesdropping di certa poesia sperimentale o recente (richiamato anche per Esercizi di vita pratica di Gilda Policastro, per esempio), in Antonio Turolo il lacerto di discorso diretto non è mai un origliare, bensì un frammento rivolto se non addirittura scagliato al soggetto che poi lo riprenderà, ricordandolo con precisione, riaccendendolo e incastonandolo nella scrittura. Se non è così, è comunque un lacerto intercettato nitidamente in una scena. E succede questo anche in La bella vita, libro che svela la prima sezione, dal titolo rosselliano Ospedaliera (ma è pure un omaggio a Massimiliano Chiamenti, leggiamo nelle Note dell’autore), con un verso in dialetto e in corsivo “chi xe morto? chi xe morto?”. Subito è messa in scena la domanda reiterata di garrule infermiere, distolte per qualche istante dalla loro noia fedida, nonostante il servizio prestato in medicina d’urgenza, che non si direbbe propriamente reparto noioso. Che si tratti di medicina d’urgenza lo apprendiamo dal titolo, e Turolo è poeta che, quando decide di usarli, sa scorgere il giusto crepo tra titoli e testo. Tra le altre cose, credo sia doveroso dare risalto a quest’atteggiamento ondivago dell’autore, che può passare da un componimento titolato a uno senza titolo senza un particolare schema.

Il testo in Turolo gemma spesso da un a tu per tu, da un incontro o ritrovo, dal ricordo di una situazione e questo riaffiorare ora è sorvegliato ora è cinico. Eppure – possiamo e dobbiamo anche scriverlo – il vero cinismo è quello di certo politicamente corretto stantio, così massiccio anche nel mondo delle lettere e dello spettacolo, che però purtroppo in pochi rilevano. Il cinismo di Turolo è più un contropelo allo scorrere dei momenti e al loro percepito convenzionale — un percepito convenzionale che la rete paralizzante dei social media sta impacchettando e cementando sempre più, in una progressiva paralisi dell’immaginario (e delle facoltà mentali). Il verso, diaframmatico, s’allunga e si contrae anche in forme ultrabrevi, come ad esempio nel testo seguente: “hotel dei faggi, residence dei salici / park villa La quiete / nomi falsi / occultano letti di contenzione / camice di forza litio neurolettici // guarda che / sono stata in manicomio io / per dirmi di non farti arrabbiare // scusami non sapevo / ma anche tu / perché / le cose / più importanti / della vita / me le hai dette / sempre / gridando”.

La bella vita del titolo è una vita in cui i libri probabilmente intonsi o poco aperti, sgamati da qualcuno di accorto nella libreria di casa, diventano un’astronave nella quale, trincerati, si sta bene. C’è un’animalità diffusa in questi versi, una ritrosia e umoralità, che viaggia accanto a un discorso che ha rimandi culturali diffusi e mai leziosi, semmai curiosi (alla letteratura o anche alla pittura, come nella poesia Custodi o nel testo sul quadro di Gian Antonio Fumiani, autore della più grande tela al mondo custodita a San Pantalon, a Venezia). Tutto ciò si salda bene in un testo come il seguente, dove il distanziamento del pronome relativo ci dice qualcosa di come s’accavallano tempi e cose nella mente: “riavvolgo il nastro / nell’antologia / l’ultimo anno a scuola che nessuno / voleva vendere per le illustrazioni / di picasso kandinski modigliani / di sandro penna c’era scritto “torbido / comunque diverso stile di vita” // e l’anno dopo a glottologia / nel dialetto di sicilia / si chiamano consonanti invertite / invertito, brutta parola, oggi // piccole trafitture / quasi niente”. Il lontano è spesso vagheggiato, sia che si parli della gomma del ponte, il chewing-gum divenuto cingòn (recuperando il dialettalismo), dell’India, della Persia. L’esotismo non è mai stato estraneo alla poesia di Antonio Turolo, in chiave di vagabondaggio dell’immaginazione all’interno dell’autobiografia.

L’architettura della raccolta, inaugurata dalla serie Ospedaliera, come già ricordato, ci parla di PostcardsFamiliariTombeaux e Poemas católicos. Al malessere dell’avvio, s’avvicenda la geografia puntiforme delle cartoline, ai testi raggruppati sotto un titolo che riecheggia Familiares o Familiarium rerum libri di Petrarca s’alternano i “sepolcri” della quarta sezione dove spiccano iniziali e nomi, e tra questi da ricordare ci sono almeno Gianfranco Folena, al quale è dedicata l’unica prosa e Daniele Leandri, meteora della quale, in qualche canale di libri usati, potrete ancora trovare il libro einaudiano Scusa i mancati giorni, al quale Turolo ha spesso mostrato una sorta di devozione (magari verrà il giorno in cui l’editore di via Biancamano che ripropone in pompa magna Biamonti, giustamente tra l’altro, e che pure verosimilmente oggi non filerebbe di striscio una nuova proposta vagamente biamontiana, riproporrà anche in pompa magna quel bel diario di Leandri). Nella poesia per Leandri degna di menzione è l’annotazione di Turolo sulle “solite facce da culo dei premi letterari”.

Nella premessa al libro Flavio Santi insiste su una consonanza con Fernando Bandini. C’è? non c’è? A prescindere dalla frequentazione di Turolo con il testo bandiniano, credo che la consonanza ci sia, soprattutto nella vocazione situazionale di questa poesia, non diversa da quella di Bandini. Ma è più situazionale o situazionista? Non manca in Turolo una fiducia situazionista nella poesia, che deflagra nel falsopiano del verso e si apre in una critica sociale liberatoria che fu propria anche del situazionismo. Comunque, a prescindere dai ragionamenti che si possono fare o evitare sulle affinità, resta che il raffronto con un grande della poesia del Novecento non è senza fondamento. Simili poi sono i principi formativi dei due autori, dove la filologia conta, e simile anche la convergenza su Padova. C’è sicuramente un senso di formazione davvero continua che insiste nella poesia di Antonio Turolo, e non da oggi, ma che oggi emerge più forte nell’ultima sezione dei Poemas católicos. Fuori dai discorsi burocratici e lavorativi che riguardano la “formazione continua”, un senso di questa scrittura pare risieda nella continuità della scrittura autobiografica, che è formazione continua e pertanto non è vita (non esclusivamente vita, se non altro). Proprio Turolo in una poesia raccomandava “Strano destino, quello dei poeti: / leggetene le opere, ragazzi, / non la vita.” Questo significa che anche in La bella vita non stiamo leggendo la vita del poeta, ma una sua opera. Si tratta di un monito sempre valido per continuare a distinguere, in quella società dello spettacolo con pochi soldi che è miseramente diventata anche la società letteraria.

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